IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento penale iscritto al numero di cui in epigrafe, a
carico  di  Becci Neris in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv.,
612, comma 1 e 635, comma 1, c.p.,
    Sentite  le  parti, alla pubblica udienza del 18 gennaio 2007, ha
dato lettura della seguente ordinanza.
    E'  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 157,  comma primo, c.p., come
sostituito  dall'art. 6,  legge 5 dicembre 2005, n. 251, in relazione
all'art. 3  della Costituzione, nella parte in cui prevede il termine
minimo  di  prescrizione  di anni sei per i delitti e di anni quattro
per  le  contravvenzioni,  anziche'  di  anni  tre, anche per i reati
puniti  con  la  sola  pena pecuniaria attribuiti alla competenza del
giudice  di  pace ai sensi dell'art. 4, commi primo e secondo, d.lgs.
28 agosto 2000, n. 274.
    1) Esposizione dei fatti e rilevanza.
    L'imputata  e' stata citata dinanzi a questo tribunale competente
per  rispondere  dei  reati di cui agli artt. 81 cpv., 612, comma 1 e
635,  comma  1,  c.p. per aver offeso l'onore ed il decoro, di Moroni
Gabriello pronunciando in sua presenza frasi offensive «delinquente»,
«testa di cazzo» nonche' per averlo minacciato.
    I  delitti  contestati rientrano tra quelli indicati dall'art. 4,
comma  primo,  lett.  a),  d.lgs. cit., ma la competenza appartiene a
questo  tribunale  in  composizione  monocratica trattandosi di fatti
commessi  anteriormente  al  2  gennaio  2002  (v. art. 64, comma 1).
Tuttavia,  debbono  essere applicate le sanzioni previste per i reati
di  competenza  del  giudice di pace, stante il combinato disposto di
cui agli artt. 63 e 64, comma secondo, d.lgs. cit.
    In  particolare, debbono applicarsi le sole pene pecuniarie della
multa,  ai  sensi  dell'art. 52, comma 2, lett. a), primo periodo, in
quanto i delitti di cui agli artt. 594, comma 1, e 612, comma 1, c.p.
- contestati all'odierna imputata - sono puniti, rispettivamente, con
la  pena  pecuniaria  alternativa  a pena detentiva non superiore nel
massimo a sei mesi e con la sola pena della multa.
    Nel  presente giudizio sono applicabili le nuove disposizioni per
effetto  delle  quali  i termini di prescrizione risultino piu' brevi
(v. art. 10, comma terzo, legge n. 251 del 2005).
    In  punto  di  rilevanza,  si  osserva  che  l'accoglimento della
questione  di  legittimita'  costituzionale  -  nei  termini  di  cui
appresso  -  comporterebbe  la prescrizione triennale dei delitti per
cui si procede, con la conseguenza che dovrebbe essere immediatamente
pronunciata  la  sentenza di non doversi procedere per estinzione del
reato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. (il termine massimo di tre anni e
nove  mesi  e',  infatti,  ampiamente  maturato,  in  quanto  i reati
risalgono  al  29  aprile  2001) non risultando dagli atti l'evidenza
della   prova   giustificativa  di  una  pronuncia  assolutoria  piu'
favorevole. Diversamente, sulla base del regime normativo vigente, la
prescrizione  non  risulta maturata ne' con riferimento al termine di
sei  anni  di  cui  al  nuovo  art. 157,  comma  primo, c.p., ne' con
riferimento  al  regime normativo vigente all'epoca della commissione
del  fatto in quanto la prescrizione quinquennale e' stata interrotta
con  il  decreto di citazione a giudizio del 23 marzo 2004, mentre il
termine  massimo  di  sette  anni  e  mezzo (identico in relazione ad
entrambe le discipline) non e' ancora scaduto.
    Di  qui  la  rilevanza  della questione fondata sui motivi che si
vanno ad indicare.
    2) Non manifesta infondatezza.
    L'art. 157,  comma  quinto,  c.p.,  come  sostituito dall'art. 6,
legge  n. 251/2005,  prevede  la prescrizione triennale quando per il
reato  la  legge  stabilisce  pene  diverse  da quella detentiva e da
quella pecuniaria.
    I primi commentatori hanno subito evidenziato i problemi relativi
all'esatta delimitazione del campo applicativo della norma.
    Preso  atto  del  silenzio  dei  lavori  parlamentari  sul punto,
l'attenzione  e' stata accentrata sui reati di competenza del giudice
di  pace,  in  relazione alle sanzioni della permanenza domiciliare e
del   lavoro   di   pubblica  utilita'  (v.  art. 52  e  ss.,  d.lgs.
n. 274/2000).
    Tali  sanzioni,  in effetti, sono diverse dalle pene ordinarie di
natura  detentiva  e  pecuniaria,  per  cui  e'  ravvisabile  l'unico
presupposto  applicativo  contemplato  dalla  disposizione  di cui al
nuovo art. 157, comma quinto, c.p., rappresentato per l'appunto dalla
punibilita'  del  reato per cui si procede con pene diverse da quelle
tipiche.
    Vi  e',  in  realta', chi ha obiettato che la disposizione de qua
non  puo'  trovare  applicazione  in ordine alle pene applicabili dal
giudice  di  pace stante il disposto di cui all'art. 58, comma primo,
d.lgs.  cit.,  in cui si stabilisce che per ogni effetto giuridico le
pene  dell'obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica
utilita'   si   considerano   come   pena   detentiva   della  specie
corrispondente a quella della pena originaria.
    Tale obiezione, pero', non appare condivisibile.
    La   norma   di   cui   all'art. 58,  infatti,  prevede  soltanto
un'assimilazione  quanto agli effetti giuridici, finendo pero' in tal
modo  per rimarcare, anziche' per negare, la diversa natura giuridica
delle  pene  applicabili  dal giudice di pace rispetto alle ordinarie
pene detentive.
    Il  legislatore  del  2005, emulando quello del 1981 (v. art. 57,
legge  n. 689/1981), ha dettato una norma di chiusura del sistema con
l'intento  di  colmare  i  vuoti normativi che possono insorgere ogni
qualvolta si debba fare applicazione di una disciplina dettata per le
sole  pene ordinarie (e non anche specificatamente per quelle diverse
applicabili nei reati di competenza del giudice di pace). In effetti,
il  sistema  giuridico  penale  e'  costruito  attorno  alle sanzioni
ordinarie  (di  natura pecuniaria e detentiva) per cui ogni qualvolta
viene  prevista  una  sanzione  diversa  da  quella tipica si pongono
problemi  di coordinamento con i diversi istituti giuridici, e di qui
l'esigenza  di  un criterio generale e suppletivo volto a risolvere i
molteplici   profili   interpretativi   che   possono   porsi.   Tale
disposizione,  pero',  ha natura generale e suppletiva, nel senso che
e'  applicabile  tutte  le  volte  in  cui per un determinato effetto
giuridico  non  sia  ravvisabile  una  disciplina  specifica  dettata
proprio in relazione alle pene diverse da quelle ordinarie.
    Pertanto,   la   stessa   disposizione  non  elimina  affatto  la
diversita' tra la sanzione atipica e quella detentiva ordinaria.
    D'altra  parte,  quest'ultima conclusione trova sostegno anche in
alcune  disposizioni  della  stessa disciplina che regola il processo
dinanzi  al  giudice di pace. Cosi', l'art. 56 d.lgs. cit. esclude la
configurabilita'  del  reato, di evasione ex art. 385 c.p. in caso di
violazione  delle  medesime  pene atipiche, a dimostrazione del fatto
che  non  vi  e'  una equiparazione di esse ad ogni effetto giuridico
alla pena detentiva.
    Analogamente, la non sospendibilita' ai sensi dell'art. 60 d.lgs.
cit.  deve  giustificarsi  anche  in relazione alla diversita' tra le
pene  c.d.  paradetentive  e  quelle  detentive ordinarie, posto che,
diversamente,   cioe'  laddove  si  volesse  ravvisare  una  perfetta
equiparazione  tra  di  esse,  si  prospetterebbe  probabilmente  una
questione di legittimita' costituzionale della normativa speciale.
    Si  puo' allora concludere che l'art. 58 d.lgs. cit. non consente
di  affermare  che le pene atipiche in questione sono pene detentive,
trattandosi  invece  di  pene  diverse  da  quelle  ordinarie, con la
conseguenza  che  la stessa disposizione non e' di per se' d'ostacolo
alla  applicabilita'  del nuovo art. 157, comma quinto, c.p. ai reati
di competenza del giudice di pace.
    Ed  allora,  tornando  alle  considerazioni  di partenza, si deve
affermare  piu'  in  generale  che  la  previsione di cui all'art. 58
comporta  l'equiparazione,  quanto agli effetti giuridici, della pena
della  permanenza  domiciliare  e  di  quella  del lavoro di pubblica
utilita'  alla  pena detentiva, fatta eccezione per i casi in cui sia
ravvisabile  una  specifica  norma che disciplini in modo autonomo la
pena diversa in relazione ad un determinato effetto giuridico.
    Cosi',  correttamente  la  suprema  Corte,  prima dell'entrata in
vigore   della  legge  n. 251/2005,  ha  affermato  con  orientamento
consolidato che ai fini della determinazione del tempo necessario per
la  prescrizione  dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di
pace,  puniti  con  la  pena  pecuniaria  o,  in  alternativa, con le
sanzioni  cd.  paradetentive, si doveva aver riguardo alla disciplina
delle  pene  detentive  ordinarie in virtu' della disposizione di cui
all'art. 58  d.lgs.  cit.  (v.,  per  tutte,  Cass. pen., sez. IV, 22
aprile 2004, n. 18640).
    Tale  orientamento,  pero', non puo' piu' essere invocato dopo la
novella  legislativa  in  esame,  in  quanto la norma di cui al nuovo
art. 157,  comma quinto, quanto agli effetti della determinazione del
tempo  necessario a prescrivere, assume i connotati di norma speciale
prevalente  rispetto  alla  disposizione  generale di cui all'art. 58
d.lgs. cit.
    Sotto  altro  profilo  e  sempre ai fini della individuazione del
campo applicativo della disposizione in esame, e' opportuno osservare
che  le  pene  diverse  in  questione,  a  differenza  delle sanzioni
sostitutive previste dalla legge n. 689/1981, non sono applicabili in
via  discrezionale alternativamente alla pena detentiva ordinaria, in
quanto   quest'ultima  pena  non  e'  mai  applicabile  ai  reati  di
competenza  del giudice di pace. La mancanza di tale discrezionalita'
porta quindi a considerare le pene diverse come pene dirette.
    Infine,  puo'  essere addotto un ulteriore argomento poggiante su
una  regola ermeneutica di conservazione della disposizione di legge,
secondo  cui  la  norma giuridica deve interpretarsi nel senso in cui
possa  avere qualche applicazione, anziche' in quello secondo cui non
ne   avrebbe   alcuna.   Ebbene,   coloro   che   sostengono  la  non
applicabilita'  della  disposizione  di cui al comma quinto del nuovo
art. 157  c.p.  ai  reati  di  competenza  del  giudice  di pace sono
costretti  a  riconoscere che la stessa norma non risulta applicabile
ad   altre   fattispecie   penali,   per   cui   appare   preferibile
l'interpretazione che le riconosce un suo ambito applicativo.
    Sotto   altro   profilo,  c'e'  chi  ha  osservato,  argomentando
principalmente  dal  dato  letterale,  che la norma de qua si applica
nelle  ipotesi  in  cui  il reato risulti punibile esclusivamente con
pene  diverse  e  non  anche  nei  casi  in  cui  la pena diversa sia
applicabile in via alternativa rispetto a quella pecuniaria. Muovendo
da  tale  premessa, si e' quindi osservato che la stessa disposizione
non  potrebbe  comunque  trovare  applicazione  in ordine ai reati di
competenza  del  giudice  di  pace  in quanto, relativamente a questi
ultimi,  le  pene  diverse  non  sarebbero  mai  previste  come  pene
principali  esclusive,  bensi'  sempre  come  alternative  alla  pena
pecuniaria,   con   la   conseguenza  che  il  termine  necessario  a
prescrivere  dovrebbe comunque determinarsi con riferimento al regime
previsto per le pene pecuniarie (nuovo art. 157, comma primo).
    Quest'ultima  osservazione non e' condivisibile perche' poggia su
un  assunto  erroneo,  in  quanto non tiene conto dell'art. 52, comma
terzo,  d.lgs.  cit.,  che prevede che nei casi di recidiva reiterata
infraquinquennale   si   deve  applicare  la  pena  della  permanenza
domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilita', salvo che siano
ritenute prevalenti o equivalenti le circostanze attenuanti.
    Relativamente  a quest'ultimo inciso, si sottolinea come il nuovo
art.  157  c.p.  stabilisce  che il tempo necessario a prescrivere si
determina  senza  tener  conto  delle  circostanze attenuanti e delle
aggravanti,  fatta  eccezione  per  le  aggravanti  per  cui la legge
stabilisce  una  pena  di  specie  diversa  da quella ordinaria e per
quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell'aumento
massimo  di  pena  previsto  (comma  secondo). Inoltre, il successivo
terzo  comma  stabilisce  che non si deve tener conto del giudizio di
comparazione ex art. 69 c.p.
    Cio'  significa  che  in  caso  di  contestazione  della recidiva
reiterata  infraquinquennale  in ordine ad un reato di competenza del
giudice  di pace, diverso da quelli di cui al comma primo ed al comma
secondo, lett. a), primo periodo, dell'art. 52 (stante il disposto di
cui  al  comma quarto), il tempo necessario a prescrivere deve essere
determinato  con  esclusivo  riferimento  alle  pene principali della
permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilita'. Infatti, da
un  lato  deve  tenersi conto del trattamento sanzionatorio riservato
alla    ipotesi    di    contestazione   della   recidiva   reiterata
infraquinquennale  in  quanto si tratta di circostanza aggravante per
cui  viene  prevista  una  pena  diversa  da  quella ordinaria (nuovo
art. 157,  comma secondo) e, dall'altro, non puo' tenersi conto della
prevalenza  o  della equivalenza con le attenuanti (stante il divieto
di  cui  al  comma  terzo),  con  la  conseguenza  che, ai fini della
determinazione  del  tempo  necessario  a  prescrivere,  si deve aver
riguardo, in questi casi, solo alle pene diverse, anche nella ipotesi
in  cui  il  giudice,  in  sede di decisione, ritenga di risolvere la
comparazione  con  le  attenuanti con un giudizio di equivalenza o di
prevalenza di queste ultime.
    Risulta,  pertanto,  confutata  l'affermazione secondo cui non vi
sarebbe  un  caso  in cui la prescrizione dei reati di competenza del
giudice  di  pace  deve  essere determinata con riferimento esclusivo
alle pene diverse da quelle ordinarie.
    Ed  allora,  e  con cio' si entra nel vivo della questione di non
manifesta  infondatezza,  appare  dimostrato  che per le ipotesi piu'
gravi  di competenza del giudice di pace, in cui sia stata contestata
la  recidiva reiterata infraquinquennale, il tempo di prescrizione e'
pari a tre anni ai sensi del nuovo art. 157, comma quinto.
    Pertanto,  la fattispecie di cui all'art. 52, comma terzo, d.lgs.
cit.,  puo'  certamente  costituire  il  termine  di  paragone  a cui
ancorare  il  giudizio  di  ragionevolezza ex art. 3 Costituzione, in
quanto  all'ipotesi  piu'  grave di competenza del giudice di pace e'
riservato  un  trattamento normativo persino piu' favorevole rispetto
alle  ipotesi  meno  gravi  punite  con  la sola pena pecuniaria, con
evidente violazione del principio di uguaglianza.
    La   Corte  di  cassazione,  con  ordinanza  n. 29786/2006  (dep.
6 settembre   2006),   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art. 157,  comma  5,  c.p.  nella  parte  in cui
prevede  che  quando  il  reato  la  legge stabilisce pene diverse da
quella  detentiva e da quella pecuniaria si applica il termine di tre
anni.
    La   motivazione  di  tale  pronuncia  rappresenta  pertanto  una
conferma  della  tesi sin qui esposta, secondo cui la norma di cui al
nuovo  art. 157,  comma  5,  si  applica  ai  reati di competenza del
giudice di pace, ma la stessa non appare invece condivisibile laddove
ritiene la medesima previsione come «priva di razionalita' intrinseca
e tale da vulnerare il principio di ragionevolezza ed il canone della
uguaglianza».  A  sommesso  avviso  di  questo  giudice, l'errore del
giudice di legittimita' e' di prospettiva: il difetto di razionalita'
del   sistema  normativo  introdotto  dalla  legge  n. 251/2005,  che
sussiste  e  che  e'  alla  base  anche di questa decisione, non deve
condurre  alla caducazione del quinto comma dell'art. 157 nella parte
in  cui  prevede  la  prescrizione nel termine di tre anni in caso di
reati puniti con pene diverse, bensi' alla correzione del primo comma
dello  stesso  articolo laddove prevede la prescrizione in sei anni o
in   quattro   anni  nei  casi,  rispettivamente,  di  delitti  o  di
contravvenzioni  assoggettati  al  trattamento  sanzionatorio  di cui
all'art. 52, comma 1 e comma 2, lett. a), primo periodo.
    Quest'ultima  conclusione,  in  particolare,  si  impone  per due
ordini di ragioni.
    In  primo  luogo,  l'intervento correttivo proposto dalla suprema
Corte  con  l'ordinanza  sopra menzionata opererebbe in malam partem,
dunque in contrasto con il noto principio valevole in ambito penale.
    Inoltre,  non  appare  neppure condivisibile quanto sostenuto dal
giudice  di legittimita' secondo cui «l'aporia normativa che con essa
(la  disposizione  oggetto  di  impugnativa, n.d.r.) si introduce nel
sistema non puo' giustificarsi alla luce di nessun valore, esigenza o
ratio essendi intrinseca alla disciplina che il legislatore ha inteso
novellare».
    La  previsione di un termine piu' breve per i reati di competenza
del  giudice  di pace non e' di per se' priva di logica, in quanto si
deve ritenere che il legislatore abbia voluto prevedere un termine di
prescrizione  piu'  breve  non  soltanto  in  relazione  alla  minore
gravita'  degli  stessi  illeciti  penali, ma anche in considerazione
della  durata  piu'  breve delle indagini preliminari riguardo a tali
procedimenti   (v.   art. 16   d.lgs.   cit.).   Secondo   una  certa
ricostruzione,  infatti, la ratio della disciplina della prescrizione
dei reati risponde alla finalita' sostanziale costituita dalla durata
ragionevole   del   processo   penale   (v.   Cass.   pen.,  sez.  I,
n. 172803/1986), di modo che appare conforme a logica ritenere che il
legislatore   del   2005   abbia   voluto  stabilire  un  termine  di
prescrizione  piu'  breve  in  ordine  ai  reati  assoggettati ad una
disciplina  procedimentale  piu'  celere  e  snella,  qual  e' quella
riservata ai reati di competenza del giudice di pace.
    Invero,  la  previsione  di un termine di prescrizione piu' breve
relativamente  all'intera  categoria  dei  reati  di  competenza  del
giudice  di  pace non sarebbe affatto priva di razionalita', e dunque
non    costituirebbe    alcuna   violazione   del   parametro   della
ragionevolezza,  in quanto il diverso trattamento rispetto agli altri
reati  di  competenza  del tribunale troverebbe giustificazione nella
minore  gravita'  dei  primi  e  nella  diversa durata delle indagini
preliminari.   Invero,   l'aporia   normativa  e'  rappresentata  dal
combinato   disposto  dei  commi  primo  e  quinto  dell'art. 157,  e
particolarmente  dalla  esclusione  da  tale  regime  piu' favorevole
proprio  delle  ipotesi meno gravi punite con la sola pena pecuniaria
ai  sensi  dell'art. 52,  comma  1  e comma 2, lett. a), prima parte,
d.lgs.   n. 274/2000.  Ma  tale  discrasia  non  deve  condurre  alla
eliminazione del nuovo regime di prescrizione (come prospettato nella
ordinanza  della  Corte  di  cassazione), bensi' all'allargamento del
trattamento  piu'  favorevole  a  tutta  la  categoria  dei  reati di
competenza  del  giudice di pace ivi comprese, ovviamente, le ipotesi
meno gravi punite con la sola pena pecuniaria.
    Tale  risultato,  pertanto, deve essere raggiunto non gia' con la
caducazione  del quinto comma dell'art. 157, bensi' con la correzione
del primo comma nel senso che qui si propone.
    Nel  presente  giudizio,  essendo stati contestati all'imputata i
reati  di  cui  agli  artt. 612,  comma  1,  e 594, comma 1, c.p., e'
prevista   l'applicazione   della  sola  pena  pecuniaria  ai  sensi,
rispettivamente,  dei  commi  primo e secondo, lett. a), prima parte,
dell'art. 52  cit.  Di conseguenza, il tempo necessario a prescrivere
va  individuato  con  riferimento  a  quanto stabilito dall'art. 157,
comma  primo,  c.p.  stante l'inequivoco tenore letterale dell'inciso
finale  di  quest'ultima norma, per cui - trattandosi di delitti - il
termine minimo e' fissato in sei anni.
    3) Inammissibilita' di una interpretazione adeguatrice.
    Vi   e'   anche  chi  ha  osservato  che  -  una  volta  ritenuta
l'applicabilita'  del nuovo art. 157, comma quinto, alle pene diverse
previste   per   i   reati  di  competenza  del  giudice  di  pace  -
l'incongruenza normativa risultante dal diverso trattamento riservato
ai   reati  puniti  con  la  sola  pena  pecuniaria  dovrebbe  essere
neutralizzata       attraverso      un'interpretazione      analogica
costituzionalmente  orientata, nel senso che il regime normativo piu'
favorevole  dovrebbe  essere esteso a tutti i reati di competenza del
giudice di pace ivi compresi (a maggior ragione) quelle puniti con la
sola pena pecuniaria.
    La tesi, pero', non appare condivisibile.
    Non  si  ignora,  infatti,  che il divieto ex art. 14 preleggi e'
ritenuto  operativo solo nei casi di interpretazione in malam partem,
ma  l'ostacolo,  nella  fattispecie  in  esame, non e' costituito dal
divieto  suddetto,  bensi' dalla previsione di cui all art. 12, comma
secondo,  delle preleggi che subordina il ricorso all'interpretazione
analogica  ai  casi  in cui il giudizio non possa essere deciso sulla
base  di  una  precisa  disposizione.  Ebbene,  come  gia'  rilevato,
l'inciso  finale  del  comma primo del nuovo art. 157 c.p. esclude in
modo  categorico il carattere «polisenso» della medesima disposizione
necessario   ai   fini  della  ammissibilita'  di  un'interpretazione
adeguatrice (v. Cass., s.u., 31 marzo 2004, Pezzella; Cass., s.u., 30
maggio  2006,  Pellegrino),  posto che il legislatore ha stabilito in
maniera  inequivoca  che  nei  casi  di reati puniti con la sola pena
pecuniaria il termine minimo di prescrizione e' di quattro anni se si
tratta  di  contravvenzioni  e  di  sei anni se si tratta di delitti,
senza  fare  alcuna  eccezione  in  ordine ai reati di competenza del
giudice  di pace. L'univoco tenore letterale della norma non consente
una  diversa  interpretazione, secondo il noto brocardo in claris non
fit interpretatio.
    Va  da  se', pero', che l'attuale regime normativo e' palesemente
affetto  da  irragionevolezza,  in  quanto  i  reati  meno  gravi  di
competenza  del  giudice  di  pace puniti con la sola pena pecuniaria
restano  sempre  soggetti  al termine di prescrizione di cui al comma
primo  dell'art. 157 c.p. (quattro anni se contravvenzioni e sei anni
se  delitti)  anche  quando  siano  commessi  dai  recidivi reiterati
infraquinquennali,  stante  il  disposto  di  cui  all'art. 52, comma
quarto,  mentre  i piu' gravi reati di cui all'art. 52, comma secondo
lett.  a),  secondo  periodo,  lett.  b)  e  c),  allorche' sia stata
contestata  la  recidiva  reiterata  infraquinquennale, sono soggetti
alla  prescrizione triennale stante il combinato disposto di cui agli
artt. 52,  comma terzo, d.lgs. cit., e nuovo art. 157, commi secondo,
terzo e quinto, c.p.
    Pertanto,  nella  impossibilita'  di  una diversa interpretazione
costituzionalmente  orientata,  la  questione  va  rimessa al Giudice
delle leggi.